Georgina Spengler                        Biography                              Paintings                                   Bibliography                                Contacts

 

Trasposizione Pittorica                                                                                                              ENGLISH                                       CLOSE                  


“C’è abbastanza spazio per una pittura naturale. Il grande vizio dei nostri giorni è l’ostentazione, un tentativo di fare qualcosa oltre il vero,” scriveva John Constable al fratello, nel 1802. Il giovane pittore era frustrato perché non riusciva a convincere gli esperti d’arte, i connoisseurs, abituati ai paesaggi ambiziosi e classici di Poussin, Claude Lorraine e dello stuolo di loro imitatori, del valore della sua visione artistica: intima anziché magniloquente, schietta anziché idealizzata. Il suo grande rivale, Turner, dovette faticare altrettanto per ottenere l’approvazione dei critici. Per molti versi l’antitesi della visione di Constable, la sua rappresentazione della natura era considerata troppo strana, troppo melodrammatica e, soprattutto, troppo astratta. Come disse il saggista inglese William Hazlitt, “faceva quadri dal niente/. Infatti...” Lo scandalo suscitato da Constable e Turner con le loro visioni della natura – diverse ma ugualmente rivoluzionarie – era il segnale di un mondo che assisteva allo sgretolamento delle antiche gerarchie sociali e artistiche. Dopo secoli di deferenza verso gli antichi maestri, i pittori andavano perdendo fiducia nell’ideale universale della bellezza e cominciavano a voler esplorare una loro visione personale e individuale. Un tempo il paesaggio (per quanto reso in maniera meticolosa) era solo lo sfondo su cui proiettare il dramma umano o sacro, mentre ora era visto sempre più come un soggetto a sé stante.

Non è un caso che una ritrovata passione per il mondo naturale coincidesse con l’epoca dei poeti romantici: “L’impulso di un bosco primaverile//Insegnarti potrà dell’uomo//del male e del bene morali//Più di tutti i saggi,” scrisse William Wordsworth, cogliendo il sentire di una generazione sempre più consapevole che verità e bellezza albergavano tanto en plein air che in università o cattedrali. Duecento anni dopo, abbiamo pianto la morte del dipinto e celebrato la sua rinascita sotto forma di stili – neoespressionista, post-pop – che troppo spesso prediligono la banalità alla trascendenza. La moda di trasformare in icone pescecani in salamoia, materassini di alluminio o i fumetti manga è l’emblema, stando alla più recente teoria critica, di un mondo che non è più postmoderno, bensì post-umano. Ma esistono ancora pittori fedeli al sogno di Constable e Turner. Sottraendosi all’ostentazione dilagante nella scena artistica contemporanea, dipingono paesaggi così astratti che lascerebbero Hazlitt senza parole, eppure capaci di esprimere indirettamente le verità per cui si battevano i pittori inglesi del Settecento. Luogo, tempo, amore, perdita, speranza e memoria sono tutti incisi sui paesaggi straordinari di Georgina Spengler e Isabel Ramoneda. La poesia, come nel caso dei loro precursori, è un elemento fondamentale della visione artistica.
Per Georgina Spengler la poesia è un canale, un catalizzatore Proustiano che permette di tradurre il passato in presente, l’immaginazione in immagine. Figlia di madre greca proveniente dall’Asia Minore e di un padre austriaco cresciuto in Nord Africa, è cresciuta negli Stati Uniti e ora vive a Roma. La sua esperienza di esilio perpetuo ha prodotto un senso intimo del paesaggio. Il suo ultimo ciclo di dipinti trae ispirazione dalla poesia di Ghiorgos Seferis, premio Nobel che, come la madre di Spengler, nato in Asia Minore aveva perso la sua madrepatria, riconquistata dai turchi ottomani nel 1923. “Alcuni versi mi tornano in mente di continuo,” spiega . “E cerco di creare nei miei dipinti le stesse sensazioni delle parole sulla pagina.” In cicli come “Cisterne e pozzi” e “I cerchi della voce” Spengler giunge trionfalmente al suo scopo. Mentre lavora con gli oli ricchi di semi di lino amati dagli antichi maestri, il liquefarsi setoso e insondabile delle superfici si rapprende grazie a velature di colore applicato con finezza infinitesimale. L’impressione complessiva è quella di una cascata di verdi alla Monet – tropicale, smeraldo, oliva, bottiglia, turchese – ma ci sono anche un rosa pallido che richiama Fragonard, un nero bituminoso e caravaggesco e poi gialli uovo, blu ceramica e bianchi gessosi che rievocano Vermeer e Rembrandt, un ametista ecclesiastico che richiama alla mente le vesti vellutate di un Veronese. Alla fine, però, la visione di Spengler è assolutamente personale. Se avete mai gettato un sasso in uno stagno vicino a un bosco mentre il sole penetrava tra le foglie, se avete guardato in alto attraverso l’acqua dopo un tuffo in un fiume d’Estate, in voi le sue cascate limpide e abissali susciteranno un’eco. Al tempo stesso, però, sfuggono a qualsiasi metafora concreta, perché siamo di fronte a paesaggi che appartengono al mondo naturale, ma anche alla mente. Palinsesti luccicanti di colore che rievocano memorie di esilio e sogni di ritorno. Paradisi perduti. Eden irraggiungibili. Al pari di tutta la grande pittura astratta, la loro potenza è a priori ineffabile. In ultima analisi, le parole che meglio ne chiariscono la forza sono i versi da cui hanno tratto origine:

“La vita che ci diedero da vivere vivemmo.
Pietà di quelli che così pazienti aspettano
spersi fra bruni allori, sotto i platani grevi,
e di quelli che parlano soli alle cisterne e ai pozzi e annegano nei cerchi della voce.” (Leggenda, Ghiorgos Seferis trad. di F. M. Pontani)

Questi processi mentali sfuggono alla spiegazione del linguaggio conscio. Dobbiamo fare appello al vocabolario dei sogni, della poesia e, come nel caso di artisti come Ramoneda e Spengler, a dipinti che trasportano il “bosco primaverile” nel territorio ugualmente fertile dell’immaginazione artistica.


Rachel Spence